EREMO DI CELESTINO V -Madonna dell’Altare

 

Siamo nel gennaio del 1235 quando un frate, tale Pietro Angelerio che veniva da Isernia in cerca di un luogo dove potersi ritirare eremita lontano dalle genti, si spinge oltre l’altipiano di Quarti per il valico della Forchetta nella Maiella orientale che il Petrarca definì come Domus Christi.

Un paesaggio dominato da rocce e dall’elegante vetta del monte Porrara. Un paesaggio che non si pone come ostacolo sulla via della perfezione, ma che invita all’ascetica meditazione in assoluta solitudine.

In un modesto anfratto che è appena uno spacco nella nuda roccia, il frate del gran rifiuto dantesco, trascorse tre anni, prima di recarsi a Roma per essere ordinato sacerdote.

Qui, il tempo si fermerà per voi, regalandovi una esperienza che difficilmente dimenticherete. Di Maggio, avvolto nella nebbia mattutina, una leggera pioggia melancolica e attorno una natura selvaggia, barbara e scoscesa che siete arroccati su un solitario sperone di roccia che di notte ha trattenuto gli echi d’orati del mondo da cui siete venuti.

 

Noi eravamo in sei, sei personaggi con ognuno la sua storia, sei personaggi attorno a un fuoco in un luogo che trasuda storia al limite tra il vero, il probabile, il sogno ad occhi aperti e i ricordi danteschi che il sommo poeta, Pietro lo colloca ancor vivo nel III Canto dell’Inferno, ma più per suoi fatti personali dovuti all’elezione di Bonifacio VIII che a sua volta colloca nel girone dei simoniaci, in una sorta di conflitto di interessi d’altri tempi.

L’eremo vi accoglierà con il suo portone ad arco graffiato dal tempo e grigio incoronato dal bianco della pietra che lo attanaglia, la nana porticina tagliata nell’anta chiusa da un lucchetto.

Costruito forse attorno al XIV secolo dall’ordine dei celestini per ricordare il proprio fondatore, l’eremo è una piccola rocca fortificata incastonata su un dente di roccia a strapiombo sulla valle dell’Aventino con delle terrazze per la coltivazione, tanto da poter rendere autonoma la piccola comunità che vi alloggiava, si dice di sette monaci. Uno in più del nostro gruppo.

La rocca è cinta da mura, fortificata sui tre lati. Il quarto fianco, affacciandovi alle finestre, vi consentirà di perdere il vostro sguardo nella vallata risalendo le altre montagne verdi e, se la giornata sarà limpida e tersa, potrete scorgere di lontananza il mare.

Sulla sinistra del cortile interno si apre invece la piccola chiesa della Madonna dell’Altare che, probabilmente deve il suo nome  al fatto che la rupe si ponga come un roccioso altare a dominare il luogo. Altri siti della Majella utilizzano infatti la stessa dicitura; Cima dell’Altare e Altare dello Stincone, ambedue essendo a loro volta bastioni rocciosi, ma nulla in questi luoghi arcaici è certo, di modo che la vostra fantasia possa vagare senza freni o limiti lungo i silenti corridoi del monastero, soffermandosi in quelle che furono le meditative celle dei monaci.

La chiesetta, altro non è che un piccolo sacello ad aula unica dove troverete ovviamente la Madonna dell’Altare che dà il nome al luogo e due dipinti ad olio, uno che rappresenta Celestino V e l’altro San Francesco Saverio, santo spagnolo che poco ha a che vedere con questo luogo, quasi un intruso in questo Abruzzo eremitico e selvaggio.

Nel complesso abitativo sono ancora conservate due celle dei monaci nelle quali si può dormire, lasciate alla loro struttura originale, piccole, modeste e spartane. Le finestre che si aprono su baratro sottostante e la vista sulle verdi dorsali che paiono giganteschi dinosauri addormentati. All’ultimo piano una piccola biblioteca di lasciti, dove abbandonarsi, perdersi nei propri sogni, nei propri pensieri o dove non fare assolutamente nulla che, anche questa è una attività, cara oltretutto ai romani di un tempo antico e glorioso.

I soldati tedeschi non hanno mancato di sfregiare questo luogo con il folle mortorio della guerra. Ai lati del tempio i cannoni, sulle terrazze i nidi di mitragliatrice, nella distesa e fitta faggeta le mine. Lo spettro anch’esso atavico, della morte con il suo carico di distruzione, dolore e lacrime.

Rastrellata la manodopera a Palena, costretti a edificare rifugi antiaerei e trincee a tirare su reticolati, vennero tenuti prigionieri nell’eremo.

La Storia, poca e rarefatta della Majella, ci racconta che nessuno di loro perdette la vita, nonostante avessero sofferto patimenti e fame, ma di più non è dato di sapere.

Certo è invece, che i corridoi e le celle dei monaci ben si prestarono all’uso di carcere e anche di quello conservano la memoria nella nostra fantasia, tra il silenzio del luogo e il rumore dei nostri pensieri. Anime ignote sembrano aggirarsi per questa mistica vetta e a tratti la comprensione del tutto sembra perfino essere a portata di mano.

Tra queste pietre, anche in compagnia, nella notte che inevitabile ti avvolge, vivi mistiche solitudini antiche, ovattate in un silenzio d’altri tempi dove l’inconscio si raccoglie in quella che doveva essere la serenità conventuale dei monaci, ben oltre il chiacchericcio delle umane genti.

Tra queste mura aleggia come sacra la commozione della tua esistenza, quella parte oscura che mai hai raccontato ad altri. La notte passa cedendo il passo al giorno in quel continuo divenire che è l’esistenza.

Un sentiero alla destra dell’eremo uscendo fuori sul lato della fonte discende per la selva scoscesa girando attorno allo sperone. A tratti tra gli alti fusti che ci sovrastano, si scorge la rocca. Bianca, candida in quel verde intenso di rami dei faggi. Verde com’è talvolta la speranza perduta dagli uomini.

 

Attorno sono fessure tra le pietre dove l’ombra sprofonda senza memoria. Un fascino bizzarro, barbaro e selvaggio, colmo di nostalgie che emergono dai cancelli argentati di rimembranze che non ti appartengono.

Dalla roccia cola un filino d’acqua che più in basso s’ingrossa in un rivolo.  La cristallina melodia della sua voce che si perde oltre per quella discesa che va a valle. Una traballante trave permette il guado come un dado che fosse tratto d’altre e più nobili memorie che qui tutto è minimo, piccolo, come la nana entrata del portone che ci ha accolto.

Ecco l’anfratto dove trovò riparo Celestino nella sua discesa a Roma,sorpreso dal maltempo, forse. Forse, perché come già detto la certezza alberga altrove dove la Storia è più solida e meno incerta. In questi luoghi quello che manca devi mettercelo tu ed è per questo che qualcosa t’ha indotto a venire. Sei sempre tu il protagonista della storia che tratti e tratti di roccia raccontano a consolazione delle tue fragili debolezze umane.

Più avanti le grotte di Celestino dove il frate in quei tre anni che passò sotto lo sperone si sedette qualche volta a contemplare la  valle perdendosi anche lui nei suoi pensieri, sospendendo il corso del tempo, cercando un appoggio per la sua fede.

Risali e di nuovo sei all’eremo che hai circondato con il tuo andare per il bosco. Ora, se è indubbio il fascino di questi luoghi, ben oltre il lato prettamente religioso, è forse meno noto  l’aspetto per certi versi “rivoluzionario” della figura di Celestino V, troppo legata nell’immaginario collettivo al celebre verso dantesco studiato a scuola.

Il primo atto del suo brevissimo pontificato fu l’Inter Sanctorum Solemnia, più nota come la Bolla del Perdono, dove concedeva l’indulgenza plenaria a tutti coloro che dopo essersi pentiti dei propri peccati e confessati si recano, dai vespri del 28 agosto al tramonto del giorno successivo, nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila per tutti gli anni a venire.

Detto così, non sembra un gran gesto, in realtà nemmeno seduto sul seggio pontificio si inimicava tutta la Curia. Questa indulgenza coinvolgeva ricchi e poveri in un periodo in cui la Chiesa rilasciava indulgenze per il perdono di tutti i peccati solo a pagamento, indulgenza che i poveri non potevano permettersi di pagare.

La Bolla papale fu donata alla municipalità dell’Aquila e conservata per 700 anni dagli aquilani che la difesero anche da Bonifacio VIII che non riuscì mai ad impossessarsene per distruggerla.

Si tratta dell’anticipazione di quello che in seguito diverrà il Giubileo con cadenza venticinquennale, mentre quello di Celestino si rinnovava tutti gli anni.

Da questo eremo della Majella una diversa visone di un Celestino V che più che ignavo, fu personalità coraggiosa, mostrando con la sua rinuncia, il suo disprezzo verso una Chiesa corrotta, ingiusta e iniqua, lasciando il soglio pontificio con i suoi agi e le sue immense ricchezze per tornare ad essere quello che era.

Celestino V non tornò mai in questi luoghi, morendo prigioniero di Bonifacio VIII.  Ci siamo tornati noi per lui, strani pellegrini, un po’ eretici, un po’ mistici, qualcuno come me miscredente ma tutti riportando a casa qualcosa di questi luoghi nelle viscere che, perdonatemi, è quello il luogo dei sentimenti più che il cuore. E’ li che sentite lo sfarfallio dell’amore, è li che vi attanaglia la paura, è li che senti quel vuoto che in posti come questi può essere riempito.

E’ forte l’imperio che ti rapisce visitando questi luoghi che è molto più che una vacanza. Poi “nella cornice tornano le molli meduse della sera” per l’ultima vota e devi tornare a casa

 

Ringrazio Annamaria G. Como dell’Associazione La Fraterna che ci ha accolto, guidato, foraggiato di dolcetti, intrattenuto e affascinato con la storia dell’Eremo e di Celestino V.

Ringrazio i miei compagni di viaggio con i quali ho condiviso questa esperienza.

Mi permetto di consigliare il mese di Maggio a chi volesse fare una esperienza solitaria o in gruppo senza altri ospiti.

Per contattare l’Associazione La Fraterna eremocelestiniano.ma@libero.it

Il cellulare della gentilissima Signora Como 3475911535

 

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