BOMARZO il BOSCHETTO di VICINO ORSINI

Quello di cui vi andrò a narrare, con il solito ed unico scopo di affascinarvi, farvi montare in macchina e partire, è uno di quei luoghi di cui avevo sempre sentito parlare ma che non avevo mai avuto l’occasione di visitare.

Quell’occasione è capitata e l’ho presa al volo che nel corso dell’esistenza bisogna salire sui treni quando questi passano e si fermano alla nostra stazione che come poetava il magnifico Lorenzo de’ Medici, “di doman non v’è certezza” e in questo momento di crisi, anche l’oggi ha i suoi seri problemi.

Saremo Immersi nel Rinascimento presso Bomarzo meta del nostro andare lungo un finire di mattinata e, più precisamente, quello che è noto in tutti il mondo e non solo in Italia come il Bosco dei Mostri. Comunque lo si voglia prendere, e vedremo che lo si può prendere per molti e svariati versi,, il luogo ha un innegabile fascino che prende, rapisce e conquista, colmo di leggende e misteri nei quali, non lo nego, mi sono perso.

Narrarlo, come vedrete se avrete la pazienza di seguirmi, non è semplice, talmente tante sono le implicazioni e le deviazioni che forse è il caso di iniziare proprio da quello che è il personaggio centrale di questa storia che il Bosco dei Mostri ha ideato, pensato e realizzato; Pierluigi Orsini, Duca di Bomarzo, Marchese della Penna detto Vicino perché non pago dei tanti nomi e titoli, così era solito firmarsi e così è citato nei tanti sparpagliati documenti che emergeranno a tratti in questa storia proprio come le sue creature all’interno del bosco, o meglio “prelibato boschetto”come era solito lui stesso definirlo.

Vicino Orsini nasce a Roma nel 1523 da Gian Corrado di Mugnone e da Clarice di Franciotto Orsini di Monterotondo, pronipote di Leone X, ovvero Giovanni di Lorenzo dè Medici. Insieme al fratello minore Maerbale viene avviato dal padre alla carriera militare, ma riceve anche un’educazione umanistica che sarà di gran lunga predominante sull’uomo d’armi o fondamentale per la creazione del “prelibato boschetto” che stiamo per andare a visitare.

Ancora giovanissimo perde il padre nel 1535 e si accende una disputa ereditaria che verrà sanata solo nel 1542 grazie all’arbitrato del Cardinale Alessandro Farnese, con il quale resterà amico fino alla fine dei suoi giorni. Gli viene assegnata la residenza paterna di Bomarzo.

E’ in quegli anni, attorno al 1540 che a Venezia frequenta il salotto letterario della poetessa Franceschina Baffo, la quale arriverà a dedicargli perfino dei versi. Qui si invaghisce di una ragazza romana, Adriana dalla Roza con la quale ha una breve storia, Qui conosce Francesco Sansovino che nel 1570 gli dedica la sua edizione dell’Arcadia, facendo proprio riferimento al boschetto di Bomarzo. Sempre nel circolo veneziano diventa amico del giovanissimo poeta Giuseppe Betussi che a sua volta ha un sodalizio non solo letterario con la Baffo che lo seguirà nel suo andare per Francia e Inghilterra. Betussi nel suo Dialogo Amoroso del 1543 ricorderà proprio il soggiorno di Vicino a Venezia e, solo una anno dopo gli dedica un altro dialogo Il Raverta.

E’ ancora Fancesco Sansovino che nel suo poderoso volume, la l’Historia di casa Orfini, ci mostra il lato umanistico di Vicino in netto contrasto con la sua carriera militare:

“Ritiene hoggi il predetto nome Vicino, figliuolo del Signor Gian Corrado, il qual di honorata presenza di vita et d’aspetto reale, et ch’ama non pur l’ari, ma le lettere ancora, nelle quali egli talhora s’essercita con felicità piena di fecondissimo ingegno nell’esprimere leggiadramente i suoi nobili, et alti concetti.”

Sebbene non ci siano prove documentate, Vicino ha quasi sicuramente conosciuto un altro autore in perenne conflitto con le teorie dell’ordine e della classicità del tempo a causa dell’indubbia carica eversiva della sua scrittura, in quanto anche lui dedicò versi alla Baffo, Pietro l’Aretino, autore dei Sonetti Lussoriosi. E in ogni caso quel libro il Vicino lo ha sicuramente letto.

Vale probabilmente la pena di aprire una parentesi sul personaggio della poetessa Franceschina Baffo le cui Rime non ci sono arrivate che a tratti. Di lei non c’è certezza come molte delle cose che riguardano il boschetto. Alcuni ritengono fosse un’aristocratica in quanto figlia bel senatore Girolamo Baffo mentre Lucia Nadin Bassani, nella sua monografia sul poeta Betussi, ritiene addirittura fosse una cortigiana, ed è fin troppo ovvio il motivo per il quale vi do questa notizia. Titillare la vostra fantasia, insinuare l’erotico dubbio che d’un tratto si fa turbamento.

Dovete darmi atto che il cinquecento sotto questa veste probabilmente non l’avete mai seriamente preso in considerazione e a dire il vero, nemmeno io  prima di recarmi a Bomarzo dove mi si è aperto un mondo. In effetti a pensarci bene questo è anche il periodo in cui nasce una sorta di rivoluzione sessuale, in letteratura anticipata dal Boccaccio e poi portata alle estreme conseguenze dal già citato Aretino nei suoi sonetti. Ma anche il momento in cui con la sua venere di Urbino sdogana il nudo e lo rende erotico con quella mano della venere posata proprio in quel punto. C’è perfino chi sostiene che sia stata la stessa giovane duchessa a posare come modella. Per non parlare della Venere Dormiente del Giorgione o dei nudi della Cappella Sistina che fecero scandalo.

Vi starete sicuramente ponendo delle domande. Donne che poetano e pubblicano, sonetti lussuriosi sottratti alla censura dei frati amanuensi che ricopiavano i testi, ma è proprio nel Rinascimento che è stata inventata la stampa con tutto quello che ne consegue. Un’altra rivoluzione.

Questo per far comprendere in quale ambiente culturale.  letterario e pittorico del Rinascimento nascerà il boschetto di Bomarzo, la cui interpretazione ha favorito le teorie più disparate. Qualcuno ha voluto vederci un riferimento al Sogno di Polifilo di un certo frate libertino Francesco Colonna Ora non fatevi trarre in inganno dal termine “libertino” che va inteso in un tutt’altro modo che da quello odierno, ma come libero pensatore e non me ne vogliate per questo, ma dovevo dirvelo.

Infatti nulla d’osceno avviene tra quelle pagine che semmai si ascrivono al genere bellico-cavalleresco  d’altre opere dello stesso periodo come l’Orlando Furioso, pubblicato nel 1516 ma anche il meno conosciuto Amadigi del padre di Torquato Tasso che nell’ultimo canto dell’opera cita Vicino Orsini  inserendolo tra le personalità guerriere che incontra percorrendo niente meno che il Colle della Gloria.

Volendo, attraversando il boschetto è possibile trovare riferimenti a tutte e tre le opere e a molte altre ancora dello stesso periodo,al punto da poter credere a qualsiasi cosa, sposare indifferentemente qualsiasi ipotesi che, tanto, nessuna potrà essere mai verificata.

Nel 1544 Vicino sposa Giulia Farnese, solo omonima della ben più famosa amante di Papa Alessandro Vi, il Papa Borgia, ma pur sempre una Farnese sebbene di un ramo collaterale e altrettanto avvenente. L’anno dopo inizia la carriera militare del Vicino, chiamato a Roma da papa Paolo III per far parte della commissione incaricata di arbitrare una controversia a proposito delle fortificazioni del Vaticano nata tra Antonio Sangallo e Michelangelo.

Lo so, non ve lo aspettavate ma Vicino Orfini, questo oscuro signorotto locale della sperduta Tuscia ha sicuramente conosciuto anche Michelangelo, il che ha ovviamente aperto altre possibili interpretazioni del boschetto bomarziano che non possiamo prendere in considerazione per ovvi motivi di spazio.

Rispetto ai piaceri coniugali, Vicino non è particolarmente fortunato. Nel 1546 lo troviamo a fianco dell’Imperatore Carlo V , insieme ad altri 160 feudatari dello Stato Pontificio. E’ al seguito dell’inviato di Alessandro Farnese nella guerra contro i principi protestanti. E’ in questo breve periodo che la sua amicizia con Alessandro Farnese e il Cardinale di Trento Cristoforo Madruzzo si consolida, breve perché viene fatto prigioniero e liberato solo nel  1547 come testimonia una lapide ai piedi del pozzo vicino alla chiesa di santa Maria Assunta a Bomarzo. Pozzo fatto costruire da Giulia Farnese per gli abitanti del borgo come voto per la liberazione del marito.

Rovesciamenti di fronte lo portano nelle Fiandre dove durante l’assedio di Hesdin, cade prigioniero un’altra volta e condotto ad Anversa, poi trasferito a namur, Ecluse ed infine a Eughien, in condizioni sempre più dure appena mitigate dai continui invii in denaro della moglie, Giulia Farnese che, durante tutta la sua assenza si dimostrerà un’ottima amministratrice delle finanze del marito.

Di questa  sua prigionia si preoccuperà anche Giangiacomo Medici di Marignano, Capitano al servizio di Cosimo I dè Medici. Da Firenze scriverà una lettera al Cardinale Antoine Perrenot di Granvelle, intercedendo perché il Vicino fosse “tosto liberato”.

Non fu “tosto liberato” e riuscirà a rientrare a Bomarzo solo dopo la firma della pace di Cateau-Cambrésis nel 1556. In pratica tra guerre e prigionie, con la moglie non c’era stato quasi mai e, si narra, che il Vicino non amasse particolarmente essere separato dalla sua amata, avendolo dovuto fare la guerra più per dovere che per sua volontà.

Dal canto mio non saprei come dargli torto, essendo indubbiamente assai più piacevole il far l’amore che la guerra. Nel 1558 abbandonerà il comando della fanteria di Velletri e non si mouverà quasi da Bomarzo, se non per qualche missione diplomatica.

E’ il 27 giugno del 1558, quando Vicino scrive al Cardinale Alessandro Farnese, manifestando la sua intenzione di ritirarsi a Bomarzo perché a 35 anni si sente ignorante come fosse nato solo oggi avendo solo una certezza, che Epicuro fosse un galantuomo:

“Sendo con lei io sfogaria tutto quel che ho dentro, come con persona che, oltre i benefitii concessoli de sopra, horamai l’experentia l’ha fatto accorgere de quel che l’homo deve operare; et io horamai de trentacinque anni ne so manco che se fosse nato hoggi; in una cosa sola me par haver più anni che Nestorre, perchè me son resoluto, che Epicuro fu un galant’huomo.”

Anche Francesco Sansovino, autore di un poderoso volume, la l’Historia di casa Orfini, nemmeno a farlo a posta amico del poeta Giuseppe Betussi a sua volta amico della poetessa Franceschina Baffo, ci rilascia un affresco di Vicino amante delle arti letterarie più che l’aria stessa, a sottolineare come la carriera militare di Vicino fosse statoa solo un incidente di percorso:

“Ritiene hoggi il predetto nome Vicino, figliuolo del Signor Gian Corrado, il qual di honorata presenza di vita et d’aspetto reale, et ch’ama non pur l’ari, ma le lettere ancora, nelle quali egli talhora s’essercita con felicità piena di fecondissimo ingegno nell’esprimere leggiadramente i suoi nobili, et alti concetti.”

In pratica il Vicino mette, per così dire le mani avanti con Alessandro Farnese. Le lettere sono come le piattaforme sociali di oggi e i contenuti verranno spiattellati in lungo e largo, divenendo oggetto di pettegolezzi magari proprio in quei giardini sorti vicino alle ville. Vicino vuole godersi Bomarzo e sua moglie, stufo probabilmente anche di andare per guerre non sue e d’essere fatto prigioniero. Dargli torto, come già detto, risulta assai arduo, anche perché sappiamo che poco prima di prendere questa decisione, quando Vicino era Comandante della Fanteria a Velletri su nomina di Papa Paolo IV assistette alla carneficina di Montefortino, l’attuale Artea.

Era la Guerra d’Italia del 1556 e gli abitanti del paese passati dalla parte degli spagnoli e in un agguato avevano ucciso un centinaio di fanti appartenenti al reparto comandato da Vicino. Paolo IV ordinò alla cavalleria comandata da Giulio Orsini di radere al suolo il borgo e di trucidare tutti i suoi abitanti. Poi, i campi attorno vennero arati dalle truppe e sulle rovine e sul terreno venne sparso il sale di modo che più nulla potesse crescere.

Ci sono validi motivi di credere che la crudeltà della carneficina abbia lasciato un segno nell’animo del Vicino, più incline alla letteratura che a trucidare nemici papalini, sebbene non si sia mai riusciti a stabilire se partecipò materialmente alla vicenda, poco conosciuta e non troppo documentata.

Solo due anni dopo, nel 1560, muore prematuramente la moglie, Giulia Farnese, ed è qui che comincia probabilmente non già la costruzione del complesso ma l’idea del “boschetto” che noi oggi conosciamo come Bosco dei Mostri di Bomarzo, seppure non nell’impianto originale, che quello, non lo conosceremo mai.

Nella sua corrispondenza privata infatti, Vicino ne comincia a parlare solo nel 1561 e poi ininterrottamente fin quasi alla sua morte, diventando quasi un’ossessione. Scrive infatti ad Alessandro Farnese il 20 Aprile del 1561:

“Io sto tuttavia intorno al mio boschetto per vedere sello posso far vedere maravigliosa a Lei come a molti balordi che vi vengono, ma questo non averrà, perchè la maraviglia nasciendo da l’ignorantia non può cadere in lei; or sia come si voglia, il povero boschetto, sapendo d’aver a ricever questa state V.S. R.ma, s’abbella il meglio che po’.”

Nel 1962 vengono ritrovati nel boschetto due cippi che forniscono un’altra ulteriore interpretazione di questo luogo che comunque sia non smette di solleticare la fantasia, le supposizioni e le teorie più disparate. Uno di questi reca inciso: “VICINO ORSINO NEL MDLII” fecit è implicito in questo genere di monumenti e non può che significare che in questa data la prima parte del parco fosse già stata realizzata. L’altro reca un’altra iscrizione: “SOL PER SFOGARE IL CORE”.

Dovevano essere posti al’inizio di quello che ancora non era il “prelibato boschetto” ma solo un’idea di parco di quella “Villa Meravigliosa” di cui ogni tanto si ha traccia facente probabilmente parte del Palazzo Orfini che,abbracciato al borgo incombe sulla vallata.

Chi ha voluto vederci un accorato sfogo di Vicino per la perdita della consorte non si rende conto che siamo assolutamente sicuri che nel 1552, Giulia Farnese era viva e vegeta. E’ probabile infatti che l’idea di Vicino di questa installazione si sia modificata nel tempo rappresentando in una seconda parte momenti della sua vita, omaggi alla cultura dell’epoca e così via dicendo nel tentativo di affascinare i suoi ospiti con un complesso meno costoso di quelli di altre ville cinquecentesco ma altrettanto affascinante e coinvolgente, tanto da essere unico nel suo genere.

Considerato l’ambiente letterario della sua giovinezza e con il quale è comunque rimasto in relazione anche dopo ci può essere un’altra solleticante spiegazione di questo luogo e ce lo spiega lo stesso Vicino. Dalle lettere ricaviamo che era questo un giardino concepito come un luogo dove “stare allegramente”, come “un di quei Castelli d’Atlante dove quei paladini et quelle donne stavano per incantamenti spensierati” e le idee del Vicino su cosa dovesse essere spuntano a tratti dalle sue lettere esattamente come le disseminate opere che sorgeranno dalla natura solo apparentemente lasciata al suo naturale caos. Si preoccupa infatti non solo delle sculture ma anche della vegetazione curando con estrema attenzione le “sistemazioni a terra” di tutto il complesso, sistemando i vialetti, i prati le cascate artificiali, solo apparentemente lasciati al loro stato naturale.

E’ il 12 di gennaio del 1580:

“una indigestione o una infezione venerea saria causa de (mandarlo) ad patres nostros ovvero di stare stroppiato in un letto, che saria male peggiore”.

Gli acciacchi della vecchiaia gli rendo infatti sempre più difficile l’abbandonarsi a piacevoli intrattenimenti nel boschetto d’ “haverci compagnia dolce tanto d’homini come di donne” mentre “pifferi, canti e similia” allietano l’animo che del suo adorato boschetto racconta che poteva essere utilizzato finanche di notte con fiaccole e torce e vi erano “galli d’India” di cui andava orgoglioso e finanche un orso regalatogli dal cardinale Farnese e, stava pensando, di acquistare una scimmia.

Ora, vi è sicuramente sfuggito, ma una infezione venerea non si può di certo contrarre in una meditazione platonica o lungo un casto percorso iniziatico, ma solo in un congiungimento per così dire, biblico, insomma carnale, che non dimentichiamo come la carriera militare abbia tutto sommato aperto gli occhi al Vicino, facendogli ben comprendere Epicuro.

Ecco, ora siamo pronti anche noi ad entrare. Andremo per dentro d’una vallata accidentata e cosparsa di rocciosi massi di peperino, sparpagliati e ciclopici. Una delimitata conca nell’incedere rossastro di verticali pareti tufacee e ai piedi dello sperone di roccia sul quale sorge l’antico borgo, sotto lo sguardo corrucciato dell’incombente palazzo che fu di Vicino Orfini che, ormai, abbiamo imparato a conoscere come fosse uno di famiglia. Entreremo nel suo mondo scolpito per sempre nella roccia e consegnato all’eternità.

Se già avrete ammirato altri cinquecenteschi italici  giardini, nel sacro boschetto dei mostri di Bomarzo vedrete dissolversi gli insegnamenti del Bramante e gli esempi di Raffaello e di Antonio da Sangallo l’amore per la regolarità e l’ordine che cedono il posto alla grottesca e scomposta rappresentazione mostruosa e surreale, d’una realtà insolita e sparpagliata tra le piante, mentre la consuetudine si piega all’imprevisto e alla sorpresa e la natura attorno invece di piegarsi al razionale e all’intelletto esplode senza alcun ritegno facendo da cornice a un qualcosa che in ognuno di voi entrerà e lascerà il segno.

Non tentate nemmeno di carpire a questo luogo le sue più intime ragioni, come avete visto vi troverete in un  labirinto intellettuale in cui mettere ordine e trovare una via di uscita risulterà arduo quanto impossibile.

Entriamo quindi in questo piacevole congegno edonistico dove è il ludico ch’appare prevalere su ogni possibile iniziatico percorso e dove per prendere una malattia venerea si dovesse per forza fare altro che platonici pensieri o alchemici percorsi.

Varcato quello che sicuramente non era l’ingresso del “prelibato boschetto” viciniano, ci accolgono per prime le sfingi che sono i sacri simboli di quella sapienza esoterica che molti pensano sia racchiusa in questo bosco di tigli e di castagni. Qui gli animali mitologici custodiscono le prime lapidi con scritte, versi, enigmi e dotti rimandi alla cultura dell’epoca che costelleranno questo nostro andare.

 

La prima più che un indovinello ci pone la questione sulla quale molti studiosi hanno prodotto volumi e volumi su questo luogo, ovvero quale potrebbe essere il motivo della sua realizzazione:

“Tu ch’entri qua pon mente, parte a parte, e dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte”

Dove “pon mente” sta per “ponendo la mente”, ovvero predisponendo la mente a fare più attenzione e “parte a parte” potete leggerlo come quel processo alchemico che separa e raffina gli elementi passando da parte a parte il Bosco Sacro, o come un più prosaico atteggiamento di discernimento.

Inganno o pura bellezza? Cosa c’è dietro questo luogo? Potremmo rispondere alla sfinge che essendo appena entrati ancora non lo possiamo sapere ma è la stessa domanda che molti illustri e meno illustri studiosi si sono posti a Bomarzo. Ponetevela anche voi e, magari, non datevi una risposta che anche questo potrebbe essere l’atteggiamento giusto.

Arte, volendo scompaginare le carte facendovi ripiombare nel dubbio e nell’incertezza è anche quel processo mentale di illuminazione propria del processo alchemico e quindi di conoscenza della coscienza razionale dell’io nella conoscenza del Sé e scusatemi se è poco, visto che siamo appena entrati.

Ma non solo, siamo sempre nel 500 non dimentichiamolo che arte ha anche a che vedere con tutte quelle situazioni collegate alla magia che sarebbe fin troppo semplice darvi una risposta bella e pronta, risposta che, nemmeno io però conosco. Posso però dirvi senza scomodar l’alchimia che la sfinge ha sempre la funzione di custodire e nella cultura classica è legata all’enigma o indovinello che dir si voglia.

L’altra sfinge non è da meno della prima e reca inciso:

“Chi con ciglia inarcate e labbra strette non va per questo loco, manco ammira, le famose del mondo moli sette”

Inarchiamo le ciglia, quando siamo presi dallo stupore che è quella sensazione di meraviglia e anche di disorientamento per qualcosa di inatteso. Lo stupore è un guizzo di intelligenza che illumina la mente, tanto che “chi non riesce più a provare stupore e meraviglia, è già come morto  e i suoi occhi non riescono più a vedere”. Una frase che si addice perfettamente a questo luogo come se Einstein, che ne è l’autore, ci fosse stato e che spiega egregiamente il significato dell’enigmatica frase della seconda sfinge.

E’ evidente l’intenzione di Vicino Orfini, uomo d’arme e dilettante poeta, di ingannare il visitatore perfino per arti magiche, quando non per illusioni e autore molto probabilmente di tutte o quasi le scritte che troveremo incise e sparse in ogni dove. La dichiara subito la sua intenzione, fin dall’inizio che è assai probabile che le sfingi fossero poste proprio all’inizio del percorso.

Viene da se che le labbra strette stanno a significare che una volta compreso, si debba mantenere il segreto, mentre “le famose del mondo moli sette” si riferiscono alle sette meraviglie del mondo antico. In pratica se, attraversando questi luoghi non siete disponibili a farvi stupire ponendovi in quello stato mentale che secondo Aristotele era capace di stimolare il pensiero speculativo, così come non siete stati in grado di apprezzare le sette antiche meraviglie, anche il giardino di Bomarzo scorrerà sopra di voi senza lasciare alcuna traccia. Cosa che, credetemi è però impossibile, perché questo luogo surreale lo porterete sempre dentro di voi.

Di buono c’è che non verrete sicuramente strangolati qualora non risolviate gli indovinelli di queste due sfingi che non tutti possono essere Edipo, o conoscere la mitologia e l’antica lingua dei nostri padri, quindi andiamo avanti, o meglio giriamo a destra che altrimenti a sinistra la visita già finisce e dobbiamo tornare in dietro. Se poi vi siete sempre chiesti cosa significhi e da dove viene la parola sfinge, colgo l’occasione che viene dal greco, stritolare. Ecco perché a Tebe finivano stritolati tutti quelli che non rispondevano all’enigma della sfinge.

Inesorabilmente, il vialetto vi condurrà a un masso dimezzato che prorompente spunta a sorpresa dal terreno tra la vegetazione come fosse stato divelto e poi gettato al suolo. E’ un finto sepolcro etrusco che ci riporta al contatto con la morte pur con il suo palese inganno. Una ninfa in altorilievo addenta una melograna, per quanto erosa dal tempo. Fidatevi si tratta proprio di quel…peccaminoso frutto.

Non è frutto qualsiasi, arcaico, profondo e rosso, i suoi chicchi separati da una membrana bianca, la melograna simboleggia allo stesso tempo sia la vita che la morte, ricordando al visitatore i due opposti ai quali siamo appesi.

Narra l’antico mito che il piccolo Dionisio, nato da una coscia di Zeus, fu messo a bollire in un paiolo e il suo sangue mescolato all’acqua bagnando la terra diede vita a questo frutto dolce, succoso, particolare e carnale. Rappresenta i piaceri della vita, compresi quelli più sensuali. Insomma se ancora non lo avete compreso stiamo parlando di sesso! Se per caso avete aderito all’ipotesi del percorso alchemico rifuggite lontano, la melagrana  è vietata agli adepti.

Offrire questo frutto nel cinquecento, corrispondeva in pratica al nostro ben più diretto ma scurrile: “mela dai?” Comprendete da soli però, con quanta diversa classe invece lo si facesse nel Rinascimento pur rimando inalterata la sostanza dell’arcaica richiesta attorno alla quale il mondo ruota.   Quale sott’inteso e ammiccante erotismo foriero di inenarrabili piaceri porgere alla visitatrice quel frutto che scolpito nella pietra è immutabile qualsiasi sia la stagione dell’anno.. E magari voi, questa struttura chiamata “il Mausoleo”, l’avevate scambiata per un semplice sasso. Un dotto ammiccamento invece,che poteva essere foriero di qualche proibito piacere colto proprio come quel maturo frutto nel bel mezzo del sacro boschetto.

 

Dislivelli naturali assecondati dai sentieri e immersi in un bosco che a tratti vi avvolge e tratti vi lascia e il terreno costellato qua e la di castagne, vi condurranno inevitabilmente a un muro, alla sua iscrizione e alla ciclopica raffigurazione di Ercole e Caco ma andiamo con ordine, che non sono né Ercole, né Caco.

Cominciamo dall’ iscrizione che recita letteralmente:

se Rodi altier  già del suo colosso, pur di quest il mio bosco ancho si gloria e per più non poter fo’  quant io posso ”

In questa epigrafe il Vicino Orsini si gloria della sua opera, allo stesso modo in cui Rodi si vantava per il suo Colosso e aggiunge di aver fatto quanto era possibile, quanto era in suo potere. Del resto il masso per quanto grande non poteva essere colossale come il Colosso di Rodi, ma questo suo sforzo, questo suo protendersi verso il massimo, rende possibile il poter fare di più; “quant io posso”. La parola “alter” sta per altero con il significato arcaico d’essere fiero, orgoglioso. Possibile che nelle  ambizioni del Principe di Bomarzo, questo giardino potesse voler soppiantare una di quelle sette meraviglie del mondo antico o comunque porsi sullo stesso  livello.

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Ancor prima di proseguire, i più maliziosi l’avranno sicuramente notato, Caco manca degli attributi, scalpellinati via da un maldestro tentativo moralizzatore da controriforma. Sappiamo che ci fossero non solo per i segni lasciati nella pietra per toglierli ma per dei disegni di Giovanni Guerra del 1604 che ritrae il gruppo ed altre opere del Bosco dei Mostri. Sappiamo invece che nel 1846 gli “attributi” non c’erano più, tanto che l’arciprete Luigi Vittori autore del volume “Memorie archeologico-storiche sulla città di Polimarzo oggi Bomarzo” scambia il povero Caco o chi fosse per una donna.

Avendo dato una sbirciatina al volume in realtà è colmo di molte altre inesattezze, scambiando anche Vicino con il padre. Se poco attendibile dal punto di vista storico è zeppo però di veri e propri “pettegolezzi” sugli Orsini di Bomarzo, motivo per il quale ve lo segnalo.

Molto probabilmente però, il gigantesco squartatore non è Ercole e di conseguenza quello a testa in giù non sarebbe Caco.  Si tratta invece dell’Orlando dell’Ariosto. Scrive infatti il Vicino al suo amico alchimista Giovanni Droutet datata 1 Aprile 1578,  riferendosi al suo giardino:

vi ho fatto qualche acrescimento fin hora quest’anno, et in breve spero che farrò deventar l’Orlando mezz’huomo da bene.”

Il che significa anche che a quella data la ciclopica scultura ancora non era terminata, forse nemmeno iniziata e sono in molti li studiosi di questo luogo rinascimentale che ritengono che l’allestimento del “boschetto” sia continuato con fasi alterne fino al 1585, quando il Vicino morì all’età di 61 anni.

Lo squartamento invece potrebbe essere messo in relazione con la carneficina ordinata dal Papa a cui Vicino aveva o partecipato o assistito e che avendolo profondamente segnato ha voluto in qualche modo rappresentare nel suo boschetto, anche perché, mitologicamente, parlando Ercole uccise Caco ma non lo squartò.

 

Gettando lo sguardo tra le vegetazione che è il vero motivo conduttore e unificante di tutto il complesso dove il suo ruolo è quello di “fingere” d’essere naturale e selvaggia, mentre mantenerla in questo modo, allora come oggi richiede una notevole cura, il vostro sguardo cadrà su una enorme testuggine. Un altro colosso, dopo quello dell’Orlando che più prosaicamente di quanto raccontato evoca ai giorni nostri un deciso “Te spiezzo in due!”.

 

 

Altri due passi senza una vera meta ed ecco che tra la vegetazione tosto spunta un’altra colossale installazione, quella della Testuggine.

La grande Testuggine è sormontata dalla rappresentazione della “Fama Alata” che suona le trombe. Una allusiva alla buna sorte l’altra alla cattiva. Anche a Bomarzo, la fama Alata poggia un solo piede sul globo che la sostiene come in tutte le rappresentazioni classiche. Badate bene che il basamento dove poggia la testuggine è a forma di prua, in pratica una barca.

Nel 1556  Vicino trascorse numerosi mesi a Firenze, per organizzare i festeggiamenti del matrimonio tra tra Paolo Giordano Orsini, suo parente e Isabella de’ Medici, figlia del Duca Cosimo I. Matrimonio che aveva lo scopo di rinsaldare i legami tra la famiglia Orsini e quella dei Medici.

E’ Cosimo I dè Medici, secondo Duca di Firenze che associa la tartaruga sormontata da una vela al motto Festina Lente, facendolo diventare l’emblema della sua flotta. Festina lente è un ossimoro, significa procedi lentamente un invito alla risolutezza ma anche alla prudenza. E’ il motto attribuito all’imperatore Augusto da parte dello scrittore Gaio Svetonio Tranquillo.

Davanti alla testuggine è un’orca con la bocca spalancata e attorno scorre un ruscello e si vedono passaggi sotterranei ai quali oggi non si può  accedere. Questa rappresentazione ai tempi di Vicino era munita di meccanismi acquatici che le facevano emettere suoni. Si tratta di un omaggio alla potente famiglia dei Medici con la quale attraverso il matrimonio di Paolo Giordano il Vicino rinsaldava a sua volta i legami.

 

 

 

Il Il vostro andare vi condurrà inevitabilmente a quello che universalmente è l’opera che simboleggia il Bosco dei Mostri di Bomarzo, l’oracolante e colossale mascherone dalle spalancate fauci che possiamo ricollegare alle maschere grottesche del Michelangelo sul pavimento della Biblioteca Medicea Lorenziana.

Mai come in questa realizzazione possiamo cogliere la personalità del Vicino, melanconica certamente ma anche capace di una notevole dose di ironia. In realtà, le spalancate ed orride fauci introducono in una fresca saletta, al centro della quale è un tavolo che, visto dall’esterno appare come la ben poco invitante lingua del mostro. Attorno al tavolo, scolpite nella viva roccia tufacea le panche tutt’attorno alle pareti che il tavolo risulta essere di solo uso di chi siede a capotavola diventando una sorta di trono.

Un luogo mostruoso solo dall’esterno dove si potevano consumare laute colazioni ed ascoltare buona musica. L’acustica all’interno è eccezionale e se vi accenderete una radio la musica per chi sta all’esterno sembrerà uscire dalla bocca del mostro.

La scritta sulle labbra sappiamo non essere quella originale grazie a un altro dei disegni di Giovanni Guerra. Al posto di quella attuale, evidentemente ricostruita, era invece scolpito il motto “Lasciate ogni pensiero voi ch’intrate”. Il riferimento dantesco è fin troppo evidente e pertanto non ve ne parlo.

Sarebbe il luogo ideale per consumare un panino o qualsiasi altra cibaria vi siate portati appresso se non fosse che dentro il cinquecentesco parco è assolutamente vietato mangiare e perfino fumare o fare qualsiasi altra attività che non sia il goderlo, in senso assolutamente platonico. Per regolamento dovreste stare ad almeno tre metri da ogni monumento.

Noi, che qui abbiamo sostato a riposarci ammettiamo la nostra colpa, quel panino lo abbiamo consumato, attenti a non sbriciolare nemmeno una crosticina e nascosti come carbonari ma pervasi da quell’insano, meraviglioso e appagante piacere perverso che è il fare qualcosa di proibito; che nessuno mi toglie dalla testa che uno scopo erotico, qui ci fosse, che già il tentativo di sconvolgere completamente la geometrica e razionale concezione degli altri giardini della stessa epoca comporta un evidente intento libertino, questa volta in senso più scollacciato.

Semmai ve lo foste dimenticati e in questo caso io sono qui apposta per ricordarvelo, il Rinascimento aveva definitivamente chiuso l’oscurantismo mediavele, al punto che si potrebbe parlare di una vera e propria rivoluzione sessuale. Il Papato dei Borgia non era di certo un morigerato esempio di etica virtù, nella letteratura vi ho già accennato all’Aretino Pietro e nella pittura Tiziano aveva sdoganato il nudo rappresentandolo in un eccitante verismo e perfino le nobildonne si mormora avessero iniziato a posare nude che per la Venere d’Urbino qualcuno insinua fosse stata la stessa giovanissima Duchessa a fare da modella in quel quadro sensuale e lascivo, famoso in tutto il mondo per quella mano, abbandonata proriolì. Vogliamo poi parlare dei nudi della Cappella Sistina che fecero perfino scandalo o della Venere dormiente del Giorgione? No, non ne parliamo altrimenti titillo troppo la vostra fantasia e chissà dove andiamo a finire.

Ora, se siete giunti a leggere fino a qui, vi tranquillizzo. E’ fin troppo ovvio che non potremo affrontare qui tutte le molteplici installazioni una per una che tanto, in ogni caso, non avrete modo di seguire i percorsi originali che nessuno conosce, motivo per il quale possiamo solo prendere un’opera e considerarla come una cosa a se, fare delle ipotesi e consegnarvi quanto di certo è possibile sapere. Il che non ci esime ovviamente dal fantasticare.

 

Se avete proceduto senza una vera e propria meta lasciandovi attirare da questo o da quel sentiero capiterete sicuramente a quella che viene chiamata la “Panca Etrusca” che molto probabilmente in origine si doveva trovare all’inizio del percorso o subito dopo le due sfingi, visto che la sua iscrizione così recita:

“Voi che per mondo gite errando, vaghi di veder meraviglie alte e stupende, venite qua, ove son facce horrende, lefanti, leoni, orsi, orchi e draghi”.

E’ piuttosto evidente che si tratta dell’epigrafe che introduce in questo mondo fantastico e che ci fa comprendere come durante i secoli quell’originale percorso sia stato modificato rendendo ingarbugliato e difficile ogni possibile tentativo di razionalizzare, di spiegare, di dare una precisa collocazione a ogni gruppo di sculture, tendendo oltretutto presente che alcune di queste erano fontane con vasche colme d’acqua e zampilli, a rendere questo spuntar fuori dalla vegetazione ancora più meraviglioso e sorprendente. E’ improbabile però che la “Panca Etrusca” fosse collocata proprio dove la troviamo oggi, mentre è altrettanto improbabile che le statue colossali siano invece state spostate nel tempo.

Se vi state affascinando e in voi sta sorgendo la voglia di venirlo a visitare, sappiate che siete in ottima compagnia lo stesso effetto fece al pittore francese Claude Lorrain, vissuto nel seicento, a Goethe, per arrivare a Salvator Dalì che il 10 novembre del 1948 visita il Parco dei Mostri e  ne rimane affascinato. E’ probabile che il suo surrealismo possa essere stato influenzato da questa visita negli anni posteriori.

https://www.youtube.com/watch?v=-qB0cdoQJtI

Ma anche Antonioni che realizzò un documentario solo due anni dopo la visita di Salvador Dalì.

https://www.youtube.com/watch?v=yTYZaoERZGg

A Bomarzo racconta Vicino, quando non poteva dormire, usciva e camminava per i corridoi appena illuminati dall’incertezza dell’alba e udiva il suono di passi felpati, cauti come chi temeva di fare rumore e tradirsi. Lo seguivano nelle sue scorrerie notturne. Erano gli orsi di casa Orsini. Lo seguivano con soave cautela enormi e muti e, Vicino si svegliava.

Orsi, Orsini una allegoria fin troppo semplice e tra le zampe stringono l’emblema della rosa simbolo della casata.  Vicino aveva orrore per la bruttezza e una passione per la bellezza, passione che forse gli cagionò disinganni e amarezze ma che diede alla sua vita un tono esaltato e perché no anche una certa tormentata grandiosità che questi orsi cercano di esprimere.

 

La Casa Pendente è, a mio modesto parere, l’autentica meraviglia di questo luogo. Entrando dall’ingresso  superiore non vi renderete bene conto della sua pendenza ma, non appena dentro, comincerete a sentirvi male. Vertigini, giramenti di testa, perdita dell’equilibrio e in alcuni casi estremi sensazioni di vomito e panico. Vi sentirete disorientati perdendo all’improvviso quei punti di riferimento che vi hanno sempre dato certezze.

Non si tratta di magia, ma pensate cosa potreste provare entrandovi di notte o all’imbrunire, si tratta di una illusione creata con tre diversi piani inclinati. La casetta non pende solo in avanti rispetto all’ingresso ma anche su di un lato e a sua volta il pavimento non è realizzato a 90 gradi rispetto alle pareti ma con una ulteriore inclinazione diversa rispetto alle altre due. La sensazione che si prova entrando per la prima volta è estremamente sgradevole e di norma non si riesce a stare dentro a lungo.

In pratica la costruzione crea una illusione nel nostro cervello. Entrando dentro cerchiamo, per mantenere l’equilibrio ad assumere una posizione dritta rispetto al pavimento che però è inclinato diversamente rispetto alle pareti. Cerchiamo pertanto di assumere una posizione verticale mentre in realtà siamo storti. Se riusciamo a vincere questa sensazione rimanendo dritti ci troveremo nella situazione di”sentirci” strorti rispetto alle pareti.

Vi sembrerà incredibile ma i fenomeni che creano i piani inclinati sulle percezioni sensoriali sono stati studiati e spiegati per la prima volta solo nel 1948 dallo psicologo sociale Solon Asch e qui invece siamo nel ‘500 e, se volete sorridere, ancora nel 1996 qualcuno parlava invece di “vortici gravitazionali” che si creano in queste situazioni.

Molto probabilmente, questa Casa Pendente, costruita nel 1955 fu l’unica realizzazione di Giulia Farnese all’interno del Bosco Sacro. Sappiamo infatti che dal 1553 al 1556 Vicino Orsini non era a Bomarzo ma nelle Fiandre prestando la sua opera di militare nell’assedio di Hesdin dove fu fatto prigioniero, potendo rientrare a Bomarzo solo dopo la pace di Catean-Cambrésis.

Sulla data della costruzione possiamo essere abbastanza certi, così come ci sono ottime probabilità che potesse essere il primitivo ingresso al Bosco Sacro e del suo percorso iniziatico, qualora vi piaccia questa ipotesi. Alla base troviamo una dedica: “Crist Mandrutio principi Tridentum Dicatum”. Si tratta del vescovo di Trento, Cristoforo Mandruzzo che molto probabilmente intervenne presso gli spagnoli per far liberare il nostro Vicino Orsini. Una seconda iscrizione recita invece “ANIMUS FIT QUIESCENDO PRUDENTIOR ERGO” invita il visitatore a fare una pausa e riposarsi ma sembrerebbe essere di molto posteriore. Iscrizione molto simile a quella che possiamo trovare presso la villa farnesiana di Caprarola, “ANIMA FIT SEDENDO ET QUIESCENDO PRUDENTIOR” attribuita ad Aristotele, che un po’ di cultura gettata qua e là a pieni mani fa sempre il suo effetto.

Non potendo andare oltre in questa dissertazione che mi ha condotto ad esplorare quanto si sappia su questo boschetto e il suo ideatore, due righe sul grande elefante che stringe nella proboscide un soldato romano almeno a giudicare dall’armatura. Qualcuno lo fa risalire alla Gerusalemme Liberata del Tasso, sempre a seconda di quale ipotesi si voglia sposare che come credo avrete compreso qui tutto è incerto se non l fatto che noi ci siamo, passeggiamo e attraversiamo questo che ormai credo anche per voi è il boschetto di Vicino Orfini.

Potrebbe pertanto rappresentare la vitto ria dell’esercito cristiano su quello mussulmano, la battaglia di Lepanto che ha anche tristi risvolti personali. Nello scontro finale muore Orazio, uno dei figli di Vicino e Giulia. Che quello portato dall’elefante sia proprio Orazio, in questo caso non lo sappiamo e, probabilmente non lo sapremo mai.

Particolare se vogliamo pruriginoso di questa realizzazione è che al contrario dei genitali di Caco o chi per lui sia, che furono scalpellinati, i genitali dell’elefante ci sono arrivati nella loro mastodontica interezza.

 

L’unica installazione per così dire “normale” che sorge nel boschetto è un tempietto che infatti è appartato sulla sommità del complesso viciniano presso un’uscita “altra” o un’entrata che non è più tale. E’ in stile dorico e di forma ottagonale con un portale ornato da un timpano vuoto. Nel soffitto del peristilio invece campeggia una fenice incoronata e qui si potrebbe ricominciare con i messaggi alchemici o quant’altro vi possa affascinare che probabilmente è la vera natura di questo luogo. . Il soffitto della cappella invece è decorato con i gigli dei Farnese e la rosa degli Orsini in ricordo dell’unione tra Vicino e Giulia.

E’ una testimonianza di Francesco Sansovino che ci mette a conoscenza del fatto che questo è il mausoleo dedicato a Giulia Farnese, la giovane moglie del Vicino morta in circostanze sconosciute in una imprecisata data che viene fissata, senza alcuna testimonianza storica nel 1560.

Nell’Aprile del 1561, Vicino scrive al cardinale Alessandro Farnese:

“Io sto tuttavia attorno al mio boschetto per veder sello posso far veder meraviglia a Lei come a molti altri balordi che vi vengono, ma questo non avverrà, perché la meraviglia nascendo de l’ignorantia non può cadere in lei”.

Queste poche righe ci inducono a fare delle considerazioni, la prima è che in quella data il boschetto già era in condizioni da attirare visitatori, tanto da essere meraviglioso per molti “balordi”. La seconda che non si può essere ignoranti per comprendere l’impianto e la terza che il boschetto non può essere stato concepito come alcuni sostengono in memoria della moglie non essendo possibile che solo una nno dopo sia al punto tale da aver ricevuto molte visiste.

Sono altre due lettere, questa volta di Annibale Caro a Vicino Orsini che testimoniano come nel 1546 nel boschetto già esistessero “teatri e mausolei”. Una probabile allusione a questa costruzione.

Putroppo, seppur romanticamente affascinante, la centralità di Giulia Farnese nella genesi del boschetto non ha nessun valido apporto di documentazione come nemmeno l’incontenibile dolore per la perdita. Nei mesi successivi alla scomparsa della moglie, nelle altre lettere inviate allo zio Alessandro Farnese, Vicino ragiona di questioni legali, della salute, del boschetto ma mai della moglie.

 

Siamo ormai immersi in questo scenario fantastico dove il tempo scorre come sospeso, un mondo dove volutamente non ci sono i diritti viali alberati che caratterizzano i cinquecenteschi giardini di questo periodo e il protagonista assoluto è il bosco, scomposto e disordinato con i suoi ancestrali richiami. Il bosco e un’idea tutto sommato geniale, quella di trasformare i giganteschi blocchi di peperino che giacevano sparpagliati sul terreno in figure eterne che potessero parlare agli eletti, forse, ma che con i loro messaggi criptici, indovinelli e continue sorprese sospese tra il magico e il fiabesco, potessero anche divertire e fornire un piacevole passatempo per la capricciosa e annoiata nobiltà del tempo.

E’ lecito pensare che la vita stessa di Vicino Orsini si trovi descritta nella messa in scena del suo “prelibato boschetto”, il suoi interessi culturali, le sue letture, i suoi drammi personali. Disseminate in ogni dove, sulle lapidi, nelle raffigurazioni che spuntano tra la vegetazione è possibile ritrovare le sue preferenze artistiche, ma è anche evidente lo sforzo di conferire prestigio al suo casato, facendo emergere dove possibile le sue relazioni con gli importanti personaggi e famiglie della sua epoca.

Se poi, in questo lungo discorrere vi fosse venuta voglia di vedere come fosse il nostro Vicino Orfini (ormai è nostro a tutti gli effetti) ve lo posso mostrare. Al Britsh Museum è infatti conservata una medaglia in piombo dello scultore toscano Pastorino dei Pastorini (1508-1592) che ce lo mostra di profilo il volto segnato dalle cicatrici di quei dodici anni di carriera militare non proprio voluta e abbandonata alla prima occasione. Se guardate attentamente la medaglia non vi sembra che inarchi anche lui le sopracciglia, disponendosi alla meraviglia chiesta dalle sue sfingi?

Esiste anche un ritratto denominato “Giovane che sfoglia un libro” di Lorenzo Lotto, ma che si tratti veramente di Vicino Orsini non c’è certezza come molte delle notizie che riguardano lui e il suo boschetto. Concludo qui il mio viaggio con voi sebbene su questo luogo si potrebbe scrivere e ancora scrivere per poi scrivere ancora. A voi non resta che montare in macchina e andarlo a vedere.

 

 

Le fonti  meritano una trattazione a parte, non si può visitare il boschetto senza scatenare una ricerca, per questo motivo  vi facilito il lavoro fornendovi praticamente tutte le fonti che è possibile raggiungere tramite internet così come me le sono trovate ad utlizzare:

http://www.simmetria.org/simmetrianew/associazione/convegni-ed-eventi-mainmenu-305/399-il-giardino-dei-mostri-di-bomarzo.html

http://www.ilgiardinoeladimora.it/da-visitare/

http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/2948/820569-137573.pdf?sequence=2

http://www.italianways.com/il-giardino-dei-mostri/

https://www.cicap.org/n/articolo.php?id=274651

http://www.bomarzo.net/bosco_Bomarzo.pdf

https://books.google.it/books?id=QtcSVqsP-1oC&pg=PA200&lpg=PA200&dq=Pirro+ligorio+falsario&source=bl&ots=SiBwDMGI3W&sig=l5OTbBaMTdOyOgtm3Y8KkyXnhkI&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiBme_ynYTXAhVEWxQKHZIMAdgQ6AEIMjAB#v=onepage&q=Pirro%20ligorio%20falsario&f=false

http://www.treccani.it/enciclopedia/pirro-ligorio_(Dizionario-Biografico)/

http://www.velletri-univercarnevale.it/Passione5.html

https://books.google.it/books?id=zemdXKA0sLkC&pg=PA134&lpg=PA134&dq=Cristoforo+Madruzzo+e+Giulia+farnese+di&source=bl&ots=TS70P6UHMT&sig=0ceMOfnXSxJWkRG118WTreJEDHg&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjE_uWdwYTXAhXH1xQKHbBYDm8Q6AEIOTAH#v=onepage&q=Cristoforo%20Madruzzo%20e%20Giulia%20farnese%20di&f=false

Lucia Nadin Bassani, Monografia su Giuseppe Betussi (Padova, Antenore, 1992 pag 16 n25)

Luisa Bergalli, Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d’ogni secolo, Venezia, Antonio Mora (per i sonetti di Franceschina Baffo dove cita il Vicino

http://web.tiscalinet.it/InteractiveMedia/Bettini/intervista_bettini.htm

http://www.academia.edu/11207435/Vicino_Orsini_tra_Firenze_e_Bomarzo._Cultura_storia_e_immaginario

https://nanquick.com/2015/01/11/two-mannerist-gardens-in-northern-lazio-italy/

https://books.google.it/books?id=MVkgAQAAQBAJ&pg=PT24&lpg=PT24&dq=Francesca+Baffo+poetessa+cortigiana&source=bl&ots=_rRtyXh8y7&sig=Bxz9I8JpFZGU2-i4URxCBPSXUr0&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwip0MHxpYvXAhWIOBQKHatbAn8Q6AEISDAJ#v=onepage&q=Francesca%20Baffo%20poetessa%20cortigiana&f=false

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/06/03/il-segreto-che-unisce-bomarzo-e-00744.html

https://books.google.it/books?id=hrpKAAAAcAAJ&pg=PA215&lpg=PA215&dq=Luigi+Vittori+arciprete+chi+era&source=bl&ots=BUl32sEQ1B&sig=aeox9jPtaeUNUK9Sefe2Dg7RU9s&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiqn9m9zozXAhVCcRQKHcENBEYQ6AEIJzAA#v=onepage&q=Luigi%20Vittori%20arciprete%20chi%20era&f=false

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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2 commenti su “BOMARZO il BOSCHETTO di VICINO ORSINI

  1. Grazie Massimo di avermi permesso di poter visitare, guidata dal tuo magistrale commento un luogo di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza.
    Penso che nel tempo a venire creerò l’occasione per andare personalmente a visitare il meraviglioso “parco” costruito amorevolmente da VICINO.

    • viagginellastoria il said:

      Ti ringrazio per il tuo commento e se il mio scrivere ti porterà a visitare il “prelibato boschetto” di Vicino Orfini, potrò considerarmi soddisfatto. Siamo seduti sul “petrolio” in questo paese e non ce ne rendiamo conto!

I commenti sono chiusi.